Investire usando i mezzi che la tecnologia ci offre, ma in assenza di “tradizione” (nel puro senso del termine), porta ad avere nell’attualità posizioni incerte, comportamenti erratici con conseguenti errori o peggio sbagli. Sempre ricordando che si è in transito sulla servitù di passaggio di una proprietà non nostra. Nel caso in cui qualcuno dovesse ravvisare in questa particolare enfasi per il “classico” una nostalgica vena di passatismo, verrei frainteso. È infatti proprio un dato che varie contemporaneità hanno visto utilizzare la querelle Antico/Moderno (non sempre il “nuovo” è foriero di modernità così come il “moderno” di novità) per interpretare quel concetto con l’intento di immaginare, i mezzi poi alla tecnologia, il futuro della propria società. L’Arte, interprete di tutto questo, si fa così rivelatrice di come quel fattore armonizzante abbia traghettato tra le epoche il frutto di mutui scambi, suggerendoci che questo modo di guardare il Mondo, ancorché discusso in termini di evitabilità o di utilità/necessità, è incredibilmente progressista di per sé. Sarà pleonastico richiamarlo, ma l’Arte è sempre stata “multimediale”. Questo aspetto può sembrare inespresso perché in passato la multimedialità era insita nell’approccio dell’atto creativo (in quanto olistico), in in-put si potrebbe dire. Oggi gli esempi di multimedialità si manifestano attraverso vari out-put; la percezione a settori della realtà trova quindi una via più immediata, con una consequenziale ridotta capacità olistica (a causa anche e soprattutto alla nomenclatura di rigidi protocolli certificati). Posto che quel che si mette qui in discussione non è il dato ma la fede nel dato, l’azione sperequata del Digitale (la mistificazione gli è connaturata) è sempre secondo la logica del Cavallo di Troia: si manifesta in un modo ed opera nel suo opposto, si presenta come soluzione di un problema ed agisce creandone altri a cascata. Impiega un’intelligenza circoscritta che non accetta, temendola, l’incertezza andando a sostituire la percezione (sensazione ed emozione) con l’informazione, l’appeal del non conosciuto e la necessità del dubbio con la sete di sicurezza e di certificazione. Per raggiungere una forma più rassicurante di conoscenza, dopo aver creato artificialmente una dimensione di rischio che richieda un’azione di prevenzione/riparazione. Anche solo in Fotografia, per esempio, si consideri che esistono le “content credentials” su soggetto e contesto per certificarne l’autenticità. Lo scatto di una foto analogica è esso stesso testimonianza di verità. Ora che abbiamo quindi avuto alle spalle quel tanto di tempo, di questa rivoluzione che ci trasporta in una nuova era, per constatarne anche le implicazioni affatto confortantemente positive potendo vedere dovremmo soprattutto non esimerci dal guardare. E per salvaguardare l’imparzialità di questa speculazione sarebbe nostra convenienza che l’affrontassimo con strumenti alternativi a quelli del processo omogeneizzato/ante che la logica (con meccanicistiche procedure) di quella rivoluzione ci offrono; un soggetto che non guardi ciò che si aspetta di vedere. Chi vede prima si rivela intellettuale, chi vede oltre artista (oggi sempre meno tale e sempre più designer). L’artista intellettuale, benché si fermi e guardi, risulta solitamente invisibile ai più; in genere chi dispensa illusioni rimane in compagnia, chi ricerca il vero si dimostra sempre outsider. Occorre infatti e in sostanza uno spettatore, che sia nelle sue corde neofita il più possibile nell’atto di guardare. Non per nulla l’Arte manifesta una traiettoria inattesa che aggiunge profondità altrove. Abbiamo allora bisogno di uno stupore, ragione non ostante e pur presente. In un sistema che vive in/di emergenza e scadenze negli scenari modellati dai cronoprogrammi, mitico personaggio, questo, protagonista del fine concetto latino di ozio, percorre i secoli errabondo come un viandante proiettato ad orizzonti che ispirano il Sublime; la fretta e lo scopo i suoi peggiori nemici, coltivando lui quel che ha valore di per sé. Tutto scorre davanti e in lui che sfugge ai prodotti della rivoluzione industriale, protagonista di racconti di Allan Poe, di Rilke e di Auster. Dalle panchine stravaganti del Giardino di Bomarzo, dall’esedra di Alma Tadena, a quelle della Piazza del Mercato di Gaudì, a quelle di Villa Pallavicini a Genova, di Monet a Givency, di Van Gogh, a quelle letterarie di Sartre e cinematografiche di Antonioni, ... Per arrivare degradato, da visionario che era a voyeur, al nuovo secolo fervido di stimoli veramente creativi che vanno dallo shopping al cazzeggio digitale. Fino ad oggi, lui (al pari di tutti coloro che non rientrano in catalogazioni certificate) cui non si concede la panchina per leggere, studiare, amoreggiare. Anche solo contemplare estasiato l’Infinito, padre di eterne creazioni. Gli vengono sdoganati da un Illuminismo di nuova illuminazione l'eroismo da confinamento (al riguardo sono convinto che sia di gran lunga più coercitivo il vuoto a tempo indeterminato che il chiuso a tempo determinato) e la cosiddetta attività motoria; quando i molti corrono rassicurati verso il nulla. Che sembra avere più scopo dell’Infinito di pochi. Dalla mela di Adamo ed Eva alle sirene di Ulisse e al Little Boy del Progetto Manhattan, quello spettatore ha sempre indicato all’uomo di seguire virtù, e conoscenza. Di tenersi lontano dal mondo dell’inautenticità e soprattutto della superficialità, perseguendo una consapevolezza che aiuta a distinguere il timore dalla ragionevole preoccupazione, il discorso dai rumors. Una consapevolezza che rende visibile come lo stato di decadimento che la “modernità” di questa contemporaneità, e di altre in passato, ha portato abbia origini complesse. Queste origini risiedono per esempio nel potere che la conformità insedia quando le ragioni de “gli altri” (la folla/la massa) sopravvengono a quelle dell’”individuo”. Una modernità che pone sempre più attenzione all’apparenza di superficie, alla frenesia, ampliando lo stato di straniamento che l’Uomo si trova a vivere. È la consapevolezza di quanto il vivere bene insieme sia una costruzione instabile ancorché fragile, la cui sicurezza trova sicure fondamenta in un sistema di convinzioni sufficientemente essenziali nel quale la maggioranza si riconosca e conseguentemente possa garantire la propria lealtà. Quel che, non di un prodotto/servizio ma di un bene, viene fondato sul paradigma della commercializzazione (e quello del “mercato” ha ormai applicazioni molto trasversali), si riduce inevitabilmente a strumento di soddisfazione temporanea, destinato ad essere moda nel Presente e vetusto nel Futuro: vale a dire a non diventare “classico”, e non per costituire un canone bensì per essere sempre attuale; ma soprattutto in questo suo essere affatto impegnativo, non richiede alcunché né induce a porsi domande. Una fra le domande sarebbe quella per cui ci si chieda cosa muove una comunità a preservare/distruggere i simboli/testimonianze ricevuti dal passato, la memoria collettiva. La volontà di porsi questa domanda rende moderna una contemporaneità; il passatismo è per chi solamente si ancora al Passato e, per contro, chi crede che il Presente sia l’unico soggetto attivo a realizzare progresso, chi categoricamente contrappone innovazione a tradizione invece di porre in evidenza variazioni e permanenze. Non foss’altro perché la tradizione è evidentemente un’innovazione ben riuscita. Sapienza della visione, sinestesia di parole-numeri-immagini, di immagini dei luoghi in cui passato e presente non distano ma sono un unico tempo, sempre di genitura originalmente avant-garde sui mondi anche di nuovi, questi nel presente ed ogni presente in futuro saranno con quello sguardo uno spazio di vita più che un tempo per restare in vita. Perché narrazione più che funzione, intensità più che misurazione sono vita. Perché ciò che viene visto con quello sguardo è ogni volta nuovo, quel che è costituito nuovo perpetua la sua novità. Lo sguardo che applicando l’attitudine al discernimento del pensiero critico, osteggia lo stato instaurato dalla connessione tra omologazione del consumo e uniformità del gusto, di cui il bifrontismo influencers-followers è un esempio. Lo fa evitando nella sua risposta il patetismo del declinare ogni cosa alla dimensione patologica e quindi terapeutica. Da cui un deviante concetto di ausilio. C’era il tempo in cui le agenzie di cura avevano un loro presidio nelle agenzie di formazione, le infermerie; e c’è il tempo in cui l’agenzia di formazione per antonomasia è divenuta presidio di cura invece che di prevenzione del malessere (l’ingresso della biblioteca sacra di Tebe in Egitto recava la scritta “Cura dell’anima”). Lo fa evitando le iperboli di manie ed isterie di massa, le retoriche dell’era iper-moderna, il delirio degli -ismi e le categorizzazioni indiscriminate (il discrimine, ciò per cui si ponderano le differenze proprio per evitare pregiudizi, è cardinale; con buona pace del conformismo benpensante) che altrimenti indirizzerebbero ad abiurare alla scambievole natura di attore-spettatore propria dell’essere umano per consegnarlo al ruolo di ologramma di sé stesso, comparsa in uno spettacolo di comparse.